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mercoledì, Maggio 22, 2024
Testimonianze

I genitori e la bottiglia

Ho frequentato per circa un anno il dispensario, ora frequento un gruppo esterno dell’ASTRA e penso che possa essere interessante, per chi è coinvolto, in qualche forma, nella dipendenza dall’alcol, conoscere, dall’ esperienza diretta di altri, gli aspetti dei problemi esistenziali che più incidono sulla nascita della dipendenza o sulla difficoltà a liberarsene.
Un problema che, nella mia esperienza e nei racconti ascoltati al dispensario e al gruppo esterno, si è presentato con una frequenza molto maggiore di quanto mi aspettassi è quello dei genitori. La cosa appare un po’ sorprendente se si tiene conto che Trieste è considerata una città nella quale i vincoli familiari sono sentiti in maniera meno forte che altrove.
Eppure sono tante le storie personali degli alcolisti nelle quali prima o poi emergono un episodio o una situazione nei quali un padre o una madre imprimono sui figli (con un loro comportamento, con le loro mancanze o la loro eccessiva ingerenza) una traccia incancellabile.
Va detto che, agli occhi dei figli, è molto difficile che una madre, e soprattutto un padre, possa apparire privo di difetti.
Il bambino e l’adolescente sono spinti a vedere nel padre il modello ideale di uomo, la personalità che prefigura ciò che egli sarà da grande. Confronta il padre con i personaggi dei film e della televisione, ed è inevitabile che il proprio padre risulti, nella maggior parte dei casi, meno attraente, meno simpatico, meno comprensivo, meno forte di un papà televisivo o letterario.
Quella dei padri quindi è una guerra che se non è persa in partenza, ha come obiettivo massimo una sconfitta onorevole.
Se questo vale per i genitori cosiddetti “normali”, cosa dire dei padri e delle madri che popolano le storie degli alcolisti o degli ex-alcolisti?
Padri che mostrano senza pudore la loro dipendenza, padri che non sono in grado di immedesimarsi nei loro figli, di comprenderne i desideri, i turbamenti, le difficoltà nei rapporti con i coetanei, con il sesso, col mondo esterno. Padri che rispondono con piccole o meno piccole violenze fisiche o morali a ciò che non capiscono. Padri che sulla base di qualche comportamento infantile, marchiano a vita i figli come rammolliti o inetti o pocodibuono. Madri che vedono i loro figli sempre come bambini, anche quando sono ormai adolescenti o quasi adulti. E che credono di poterne affrontare i problemi come si affrontano quelli della prima infanzia. Madri infine che si rifiutano di credere alle violenze subite dalle loro figlie da parte del loro coniuge, del loro compagno, perché ciò le porterebbe ad ammettere colpe e negligenze troppo gravi per poter continuare a vivere in modo normale.
Nelle storie che ho ascoltato (o raccontato), le colpe dei genitori sono state spesso fra le cause e le concause dell’alcolismo. Di fronte alle colpe dei genitori, i figli reagiscono qualche volta con un totale rifiuto della figura materna o paterna, con un totale allontanamento di questa figura dal proprio orizzonte morale. Ma non sempre è così: in più di un caso, anche se c’è un allontanamento, si presenta il momento in cui il figlio o la figlia si mettono alla ricerca di ciò che si può salvare dal naufragio del loro rapporto con i genitori. O, perlomeno, si mettono alla ricerca dei motivi per i quali siano potute accadere certe cose. Ricerca non facile perché ostacolata dal rancore, dalla rabbia, dal dolore, ma comunque segno della forza del rapporto genitore-figlio, della sua centralità nello sviluppo dell’individuo, delle radici che questo rapporto affonda negli strati non coscienti della nostra mente. C’è una soluzione? I problemi veri e profondi della vita dell’uomo non hanno una soluzione univoca e immediata. Solo il tempo, l’acquisizione della capacità di vedere le cose con il necessario distacco, possono portarci qualche volta a giustificare, qualche volta a capire, qualche volta solo ad accettare. Anche se non è bello a dirsi, talvolta solo la morte può portare a una piena accettazione, un’accettazione che ha come componenti non secondarie la pietà per l’immensa solitudine della vecchiaia e della malattia, la tenerezza, la consapevolezza dei nostri limiti nel capire noi stessi egli altri.